Recensione: Rush - Hold your fire (1987)


Artista: RUSH
Album: HOLD YOUR FIRE
Anno di pubblicazione: 1987
Tracce: 10
Genere: Progressive rock, AOR
Durata: 50'21''
Etichetta: MERCURY RECORDS
Produttori: RUSH, Peter Collins

RECENSIONE A CURA DI LORIS

Sul finire degli scintillanti anni ottanta, i RUSH ormai rappresentano una colonna portante del progressive rock, miscelato con le sonorità del suddetto periodo in cui tastiere e produzioni pompose la facevano da padrone.
Reduci dal tour di Power Windows, disco uscito nel 1985 ed in linea con i suoni di quegli anni, per quanto riguarda l'utilizzo massiccio di tastiere e di una super produzione, il “power trio” canadese torna in studio per dare alla luce il suo dodicesimo album: HOLD YOUR FIRE.

Le sonorità del disco in questione si rifanno agli stilemi già adottati nei precedenti episodi discografici del trio, a cominciare dal già citato Power Windows, passando per Grace Under Pressure (1984) e precedentemente Signals (1982).
Si può affermare che HOLD YOUR FIRE rappresenti pienamente la summa delle sperimentazioni fatte nei dischi sopracitati, in generale il suono risulta più ammorbidito e tendente ad un rock di sponda AOR, con qualche sprazzo di pop/rock, chiaramente sempre di livello elevatissimo e ricercato, seppure non siano assenti momenti di hard/rock di ottima fattura.

Ma ora veniamo all'analisi di ogni traccia di HYF:

Il disco si apre in maniera solenne con FORCE TEN, una delle canzoni più dinamiche e movimentate del lotto; Il synth in apertura introduce il brano con dei vocal pad che danno il “la” alla prima strofa in cui basso e batteria iniziano a macinare come una locomotiva in corsa per lanciare il cantato di Geddy Lee. Subito dopo, si sente un breve assaggio dell'inciso del brano che si collega immediatamente alla suddetta strofa, mentre la seconda presenta un cambio di arrangiamento che smorza l'energia dell'apertura attraverso toni più tenui e d'atmosfera. Si capisce subito che siamo di fronte ad un pezzo abbastanza complesso, sia a livello di struttura sia a livello melodico. Esso si evolve di minuto in minuto, proponendo cambi di tempo, e passando da una tonalità minore ad una maggiore, a testimonianza della varietà di sfumature che i RUSH hanno voluto attribuirgli.
Il testo tratta il tema delle “tempeste della vita”, per spiegare il quale i parolieri Pye Dubois e Neil Peart ricorrono ad un'analogia interessante: ovvero il grado 10 (da qui il titolo force ten) della scala di Beaufort, che misura l'intensità del vento e l'effetto che ha sul mare e sulla terra.
La chiusura è affidata ad un curioso “gioco” di percussioni (che tra l'altro si sentono anche ad inizio brano, pochi secondi dopo l'entrata del synth), le quali spianano la strada alla seconda traccia. VOTO 7,5

Un riff di chitarra, accompagnato da alcuni passaggi sui piatti e subito dopo sui tom della batteria - tutto costruito su un tempo di 7/4 - ci fa capire che è iniziata la bellissima TIME STAND STILL: un autentico ritratto di vita, descritto magistralmente dalle liriche di Neil Peart. Brano molto intenso, pieno di atmosfere e arricchito dalla voce di Aimee Mann, bassista e cantante americana, è caratterizzato da alcuni cambi di ritmo e da una certa varietà in fatto di dinamiche.
Il pezzo segue un andamento regolare senza particolari escursioni strumentali, solo verso il finale troviamo un intermezzo in cui la tastiera con dei tappeti, la chitarra con un riff e la batteria con un tempo dispari, lo riportano verso il ritornello, dopo il quale il brano si chiude sulle “piattate” di Peart.

“ Time stand still-
I'm not looking back
But I want to look around me now
See more of the people
And the places that surround me now...”

Il testo racconta, in modo malinconico, come il tempo nella vita di un uomo, dalla sua infanzia fino al momento in cui si ritrova adulto, scorra velocemente, e del rischio che si corre, arrivati a quel punto della propria vita, di guardarsi indietro per cercare di rivivere il passato sacrificando il presente, invece di viverlo appieno. Il messaggio lanciato all'ascoltatore è quello di fermarsi, anche se il tempo non si può arrestare, per godersi i momenti più belli con le persone più importanti della nostra vita. VOTO 9

Da qui in avanti l'album cambia marcia, trasportando l'ascoltatore in un'altra dimensione, ma anche destabilizzandolo non poco.
Eccoci arrivati ad OPEN SECRETS: un suono effettato di tastiera disegna l'intro, subito scandito dal basso pulsante di Lee, ed il brano si apre con degli accordi di tastiera seguiti dalla chitarra di Lifeson che delineano l'atmosfera introduttiva. Anche qui sono numerosi i cambi di ritmo, scanditi dalla fantasiosa batteria di Peart e dall'arrangiamento molto progressive dato al brano. Breve ma intenso il solo di chitarra, caldo e gustoso il lavoro di Lee al basso, notevole anche l'arrangiamento, sempre vario e ricco di sfaccettature diverse. Il testo si presta alle più svariate interpretazioni, ma da una sua prima lettura sembra indirizzare verso una descrizione dei rapporti interpersonali, in particolare sulla difficoltà delle persone nel farsi comprendere appieno dagli altri, dalla loro paura nel mostrare la propria personalità per il timore di essere giudicate, oltre che per il lato segreto che nascondono dentro di loro. VOTO 8,5

Momento di pathos con sfumature “solenni” nel quarto atto, SECOND NATURE, che si apre con degli accordi di tastiera e la voce di Geddy Lee che pronuncia le frasi della prima strofa. E' un brano che alterna fasi più lente, a fasi più sostenute, in cui la chitarra si riduce alla funzione di accompagnamento per lasciare campo alle tastiere che guidano l'andamento della canzone.
Il testo è dedicato alla società in cui viviamo, governata da “capitani” come recita il brano, che guidano male il loro popolo, lasciando spazio al mero progresso senza un controllo e un rispetto generale. All'interno c'è un auto ammonimento ma anche un rimprovero verso chi vorrebbe fare qualcosa per cambiare le cose ma poi non fa altro che parlare e basta, senza muoversi in prima persona: “combattiamo il fuoco, mentre alimentiamo le fiamme” recita il testo. Esso fa perciò riferimento ad una “seconda natura” che dovrebbe uscire fuori in ognuno di noi, per permetterci di provare ad invertire la rotta sbagliata, intrapresa dai “capitani” che ci governano. VOTO 7

Per la quinta “fatica” di questo album, Lifeson ritorna a graffiare con la sua chitarra, ed a tinteggiare l'intro energico di PRIME MOVER, in cui spiccano comunque le solite tastiere pompose e regnanti. Le strofe sono un susseguirsi di emozioni, la dinamica crescente del pezzo ci conduce al ritornello in cui la batteria salta subito all'orecchio con le sue consuete acrobazie ritmiche, ma non ci distoglie anche dal basso nervoso e frizzante di Geddy Lee, che disegna una linea accattivante. Anche qui assistiamo a momenti elettronici, in cui gli effetti tastieristici arricchiscono un pezzo già di per sé molto valido e in cui la vena prog è sempre ben in mostra in alcuni sprazzi significativi.
Il tema del testo è costruito sul parallelismo vita-viaggio; si parla di mete ed emozioni, in questo caso alimentate dal “primo motore”, qui descritto come un serbatoio in cui albergano le passioni, l'istinto, la razionalità, insomma, tutte le sensazioni e gli stati d'animo che ci spingono ad affrontare il nostro viaggio vitale. VOTO 8

In LOCK AND KEY Ã¨ racchiusa un'anima drammatica e spettrale, come evidenziato dalle tastiere che avviano il brano. Siamo di fronte ad un'altra composizione fortemente progressive e ricca di sfumature. Ancora una volta siamo in presenza di alcuni cambi di ritmo in cui le tastiere rappresentano il filo conduttore, senza però negare a Lifeson il permesso di inserirsi con interventi azzeccatissimi, ora con il distorto, ora con un chorus d'effetto, sempre esprimendo grande energia.
In questa occasione Lee sfoggia per la prima volta un basso 5 corde, a suo dire per accentuare le tonalità basse del brano, visto che in quegli anni le tastiere erano sempre più sofisticate e riuscivano a raggiungere tonalità ancora più cupe di un basso, per l'appunto.
La parte ritmica di Lifeson non è il suo unico intervento in tutto il pezzo, infatti il chitarrista di origini serbe si scatena in un intenso assolo, coadiuvato dalla batteria stellare di Peart. E' un momento topico in cui tutti gli strumenti viaggiano all'unisono, formando, anche a detta dei RUSH stessi, un'interazione musicale perfetta che li ha fatti sentire compatti ed uniti come non mai.
Il testo parla della sfida eterna dell'uomo al proprio istinto, e l'infinita lotta per tenerlo a freno nelle varie vicissitudini della vita, per paura di venirne travolti. Brano a dir poco splendido. VOTO 8

E qui veniamo ad uno dei calibri da novanta dell'intero album: la folgorante MISSION.
Si può definire un inno a tutti gli effetti, una ballata rock caratterizzata da un altro intermezzo ispirato a sonorità progressive, in cui Peart si concede perfino un piccolo assolo di marimba, e da un altro assolo al fulmicotone di Lifeson, intenso ed etereo, che proietta il brano tra le stelle dei migliori brani del power trio made in Canada.
Dal suo testo è tratto anche il titolo dell'album, appunto la frase: Hold your fire, tradotto in “difendi il tuo entusiasmo”.
Il tema del testo è condensato sul desiderio delle persone di diventare famose e di idealizzare perciò la vita di altri che magari hanno raggiunto alti traguardi nella loro esistenza. Ma questo non deve far pensare che ciò non comporti sacrifici e momenti di fatica, soprattutto a livello di affetti. Una perla di questo disco. VOTO 9

Abbiamo ancora nella testa e nel cuore l'assolo finale di Lifeson in Mission, ed ecco che un piccolo “solo” di basso dà il la a TURN THE PAGE, un altro pezzo forte di HYF.
Il brano è introdotto dalle tastiere e da un filo di chitarra, sempre a supporto, per poi sfociare nella carica prima strofa che ci indirizza verso un ritornello fugace e ben costruito. Strofa successiva: Lifeson ricama un fraseggio dei suoi per sottolineare il pathòs del brano, subito dopo un'altra accelerazione richiama il secondo giro di ritornello che poi ci porta ad un altro intermezzo strumentale in cui la chitarra si rende affilata come una sciabola, anche se per pochi secondi.
Il finale è in crescendo, di fatto questo è l'ultimo pezzo “carico” del disco, visto che subito dopo ci saranno due brani più atmosferici e con sonorità più soft. In primo piano la linea di basso di Geddy Lee che qui raggiunge livelli eccelsi in fatto di gusto. 
Il testo è un richiamo ad essere coraggiosi nel saper “voltare pagina” e cogliere tutte le occasioni nella vita per migliorare e sollevarsi dai momenti più difficili con forza e vigore. VOTO 7,5

Le ultime due canzoni del disco rappresentano una sorta di rebus per molti, in quanto vengono considerati come brani “minori” o perfino di riempimento.

In realtà, bisogna prestare molta attenzione soprattutto a TAI SHAN, dedicata alla Cina e alla sua aurea mistica; le atmosfere e i suoni già in apertura ci proiettano in Oriente, e sembra veramente di trovarsi lì, ai piedi della Montagna Sacra cui fa riferimento il testo di Peart. L'inciso è permeato dalle tastiere incisive di Lee, che danno ancora più atmosfera al brano, mentre Lifeson si concede un piccolo ma significativo assolo in chiusura.
Il testo è dedicato al fascino del paesaggio cinese, che ha “catturato” Peart durante uno dei suoi tanti viaggi e che ha poi perfettamente riportato in questo bel brano. VOTO 7

HIGH WATER cala il sipario sul disco. Le sue sonorità “soft” e la sua struttura minimale rendono questo brano quasi una voce fuori dal coro, anche se, ascoltandolo più volte, si capisce che, come chiusura del disco, non è poi così inopportuna.
Pezzo tastieristico in cui Lee passa da tonalità vocali basse, a tonalità più alte e marcate soprattutto nell'inciso. E' presente un altro piccolo assolo di Lifeson, più controllato (qui utilizza prevalentemente la leva della sua chitarra) e in linea con lo spirito del brano.
Il testo sembra più criptico degli altri, ma in sostanza parla dell'immensità delle acque e della loro fluttuazione senza sosta, tra oceani e fiumi, tra giungle e montagne...
Musicalmente, come detto sopra, è un brano molto minimale e che non sembra quasi nemmeno appartenere ai RUSH, ma questa sua “particolarità” lo rende abbastanza adatto a chiudere il disco. VOTO 6,5

In sostanza Hold your fire Ã¨ un disco appetibile anche per ascoltatori alla ricerca di sonorità accessibili ma pur sempre dal palato fino; il disco si colloca nella “ Terza Fase ” della carriera dei RUSH, e di fatto la chiude, prima dell'avvento della “ Quarta ” che segnerà un ritorno massiccio delle chitarre al posto delle tastiere, e perciò configurando un genere più vicino all'hard rock.

Consigliatissimo a chi si volesse avvicinare al mondo dei RUSH, (seppure siano consigliabili altri loro capolavori per conoscerli) che in questo capitolo uniscono un forte uso della melodia e di arrangiamenti sopraffini, alla solita vena sperimentale maturata negli anni ottanta, e che qui trova una propria quadratura.

LINE UP:
GEDDY LEE: basso elettrico, tastiere, voce
ALEX LIFESON: chitarre elettriche ed acustiche
NEIL PEART: batteria acustica ed elettronica, percussioni
Giovanni Gagliano

Passionate about music I wrote my first article for "Given To Rock" in 2012, reaching now 30K global followers. I am also a musician, gigging around London.

Previous Post Next Post