Recensione: Rush - Signals (1982)


Album: SIGNALS
Artista: RUSH
Anno: 1982
Genere: Progressive rock / synth rock
Tracce: 8
Durata: 43'12''
Etichetta: Mercury
Produttori: RUSH e Terry Brown


RECENSIONE A CURA DI LORIS

E' il 1982, i RUSH sono reduci dal tour di quello che si può definire come il loro album di maggior successo, ovvero Moving Pictures, un classico del rock, sponda progressive, che ha definitivamente proiettato il trio di Toronto nell'Olimpo dei grandi. Ed è proprio da MP che i Rush si sono distaccati dalla fase prettamente prog rock, per sperimentare verso sonorità elettronica, intrise di new wave, reggae e synth rock. Infatti SIGNALS è proprio il punto di partenza della nuova fase dei canadesi, grazie al suo forte impatto tastieristico e avvenieristico, per via di alcune combinazioni azzeccate e nuove per l'epoca, parliamo di effetti sonori e del massiccio uso di sintetizzatori, ma anche per l'artwork del disco, a partire dalla curiosa copertina, caratteristica e riconoscibile dalla figura dell'idrante rosso e del dalmata che lo “annusa”, ma in particolare per le foto “futuristiche” dei tre membri del gruppo al suo interno, con la solita impeccabile regia di Hugh Syme. Tutto ciò non stupisce, visto che la genialità non è mai mancata al power trio.

Ma veniamo al lotto dei pezzi di questo folgorante disco:
Si comincia con uno dei brani più belli mai pubblicati dai Rush: SUBDIVISIONS.
Un incedere di synth ci introduce al riff di tastiere accompagnato dai paradiddle sull'hi-hat, alternati a tocchi di rullante, di Peart sempre eccellente nelle ritmiche; dopodiché il brano si apre definitivamente con Lifeson che sfoggia dei powerchord potenti ma allo stesso tempo controllati e che danno una perfetta ritmica all'intro.
La prima strofa è caratterizzata da un suono asciutto, con la voce di Geddy che spicca per pulizia (siamo negli anni d'oro per quanto riguarda la sua vocalità). Nel ritornello il ritmo sincopato della batteria e alcuni bei giri di basso e chitarra rendono il brano ancora più accattivante e incisivo. “Conform or be cast out” recita il finale dell'inciso, richiamando il tema portante del pezzo, ovvero la conformazione e la massificazione presente nella società moderna, la quale sembra fare pressione sulle persone, obbligandole a seguire un certo stile di vita, nel nome dello sviluppo e del consumo a tutti i costi.
Il finale strumentale, vede le solite acrobazie batteristiche di Peart e i potenti synth di Lee che chiudono epicamente questa prima traccia. Voto 8

Il riff chitarristico al fulmicotone di ANALOG KID disorienta l'ascoltatore ancora inebriato dalle sonorità del pezzo precedente: qui si cambia ritmo, siamo in territori prettamente hard rock con le tre strofe iniziali, ma ecco che di botto il ritornello ci regala un marcato cambio di ritmo e sonorità, inaspettato ma ben congeniato, in cui le chitarre si placano e in cui prendono il timone le tastiere di Geddy Lee. Subito dopo però si ritorna all'energia delle strofe con un serrato ritmo dettato dalla batteria forsennata di Peart, per poi ritrovarsi in uno special ancora una volta spiazzante che ci introduce al super assolo di Lifeson, il quale sfoggia uno shredding coinvolgente, al termine del quale risuona parte della strofa precedente in cui spiccano i tappeti tastieristici di Lee. Le stesse tastiere che poi ci accompagnano verso il finale del pezzo, caratterizzato dal riff di chitarra che aveva aperto il brano come a voler chiudere il cerchio.
Il testo parla della voglia di evadere e di lasciarsi trasportare dai sogni, il tutto condito da quella vena di insicurezza e incertezza nei confronti del futuro, tipico della fase adolescenziale. Voto 7,5

Ancora tastiere protagoniste in CHEMISTRY, autentica perla del disco in questione: cominciamo col dire che in questo episodio sono stati tutti e tre i componenti ad occuparsi del testo, quindi per questa volta non il solito Neil Peart.
Anche musicalmente parlando si tratta di un brano costruito all'unisono da tutti e tre, ma, curioso a dirsi, in modo del tutto separato; infatti, senza saperlo, ognuno ha sviluppato la propria parte col proprio strumento, che poi, confrontata con le altre e assemblata, ha dato come risultato l'ossatura e la struttura della canzone. Geddy si è occupato delle tastiere per il bridge, Lifeson del riff portante delle strofe e Peart della batteria nell'inciso, mentre il testo, originariamente buttato giù dai primi due, venne poi sottoposto a Neil che, in veste di paroliere, gli diede una revisione per poi adattarlo alla versione finale.
Una questione di... chimica si potrebbe dire, infatti il brano parla proprio di questo: di particelle, di reazioni regolate da tutte quelle leggi scientifiche che sfuggono al controllo dell'uomo in quanto manovrate dalla natura.
Grandissima prova a livello musicale, perfetta la costruzione del pezzo, sapientemente arrangiato e con quello squisito tocco ''rushiano'', cioè quella particolarità tutta del gruppo di Toronto di riuscire a creare degli intrecci musicali e strumentali unici. Spiccano la batteria e le percussioni di Mr. Peart ma anche la chitarra di Lifeson, che si produce in riff e ritmiche di gran classe, il tutto impreziosito da un assolo finale che si sviluppa sulle sonorità del ritornello. Voto 8

Alcuni passaggi sui tom rompono il silenzio e l'atmosfera lasciata dal precedente Chemistry per introdurre DIGITAL MAN, quarta traccia del disco. Si capisce da subito che stiamo entrando nel vivo di questo lavoro discografico, in quanto balzano all'orecchio le sperimentazioni sonore volute da parte del trio. La sua complessità e costruzione del tutto originale, con escursioni reggae che strizzano l'occhio ai POLICE, (il gruppo di Sting che in quegli anni mieteva un enorme successo), rendono questo brano assolutamente godibile dall'inizio alla fine, in particolare per l'eccezionale lavoro bassistico di Lee, la solita batteria mirabolante di Peart e la finezza esecutiva di Lifeson alle chitarre. I diversi cambi di tempo durante il brano creano un effetto molto “prog” anche se di fatto i Rush qui hanno voluto discostarsi completamente da quelle radici, senza però perderne l'essenza. Nel pezzo è presente un intermezzo, (special), che anticipa l'assolo di Lifeson e che termina lanciando l'ultimo giro di inciso per poi lasciare spazio alla coda finale molto coinvolgente e in cui si sente un altro piccolo “solo” chitarristico che va sfumando in chiusura, accompagnato dalle piattate di Peart e dalla voce di Lee che si diverte a “giocare” con le parole del testo. Proprio il testo affronta il tema dell' “Uomo Digitale”, ovvero quell'individuo che, vivendo nell'epoca dello sviluppo e del più sfrenato materialismo, viene snaturato dalla sua anima “umana” per essere inghiottito dal vortice dell'alienazione:

“He'd love to spend the night in Zion
He's been a long while in Babylon”

Questa parte di testo cita Babilonia, per indicare la corruzione a cui è sottoposto l'uomo, ormai immerso in una società sintetica e, come recita in una delle strofe il testo, “sotto anestetico” a testimonianza dell'incapacità di vivere in modo libero ed autonomo la propria esistenza, in quanto schiavo dei dettami imposti dalla stessa società. Speciale. Voto 8

Un intro sfumato ci conduce in punta di piedi all'episodio più “sperimentale” del disco: THE WEAPON, un condensato di effetti sonori e di ritmi quasi “dance” macinati dalla batteria di Neil Peart, qui in grande spolvero. Cominciamo col dire che il brano è il secondo capitolo della trilogia “FEAR” a cui sono associate anche: “the enemy within” dal successivo disco, Grace under pressure e “Witch hunt” dal capolavoro Moving Pictures, dell'anno prima.
Come detto in precedenza, l'andamento “danzereccio” del brano, crea un senso di sorpresa nell'ascoltatore, ma allo stesso tempo coinvolge, in quanto ancora una volta prevale la classe del trio, che riesce ad amalgamare bene i suoni e le sfumature del pezzo, il quale si sviluppa in crescendo, seguendo delle dinamiche precise ed incisive. A metà del brano è presente un momento strumentale in cui la chitarra di Lifeson emana un solo che sembra ricordare un lamento, per poi sfociare in un assolo vero e proprio, sempre coadiuvato perfettamente dal beat martellante di Peart, che subito dopo sfodera una rullata micidiale che lancia un altro giro di inciso, al termine del quale il brano va sfumando attraverso dei leggeri armonici di chitarra.
Il testo è tutto incentrato sul tema della paura, utilizzata come arma contro l'uomo, per spezzare le ali della conoscenza e del pensiero libero, che divide e mette gli uomini contro sé stessi e gli altri. Esperimento riuscitissimo e coinvolgente. Voto 8

Altro brano, altro esperimento del nuovo corso “rushiano” con NEW WORLD MAN, forse il brano più rappresentativo della piega “reggae” di Signals. Alcuni effetti sonori anticipano la batteria di Peart che lancia il brano con un ritmo controllato e che lascia subito intendere quali sonorità ci attendano. I fraseggi di Lifeson disegnano una melodia e poi via, si parte alla scoperta dell' ”uomo del nuovo mondo”, con un incedere sempre in crescendo fino al ponte che introduce il carico inciso.
Nella strofa successiva Peart disegna una ritmica varia con alcune gustosissime figure ritmiche, aprendo e chiudendo l'hi-hat, e donando maggior fantasia al brano, che ormai ha scoperto le sue carte e rivelato la sua natura.
In questo episodio non è presente un vero e proprio assolo di chitarra, qui Lifeson infatti si “limita” all'accompagnamento ritmico affiancato alle sue solite finezze, rimanendo comunque sempre fedele alla struttura.
Gradevoli i cambi di ritmo nel finale, alternati tra ponte e inciso che smuovono un po' l'andamento del pezzo, il quale tutto sommato rimane sempre costante. Il testo si concentra sulla figura dell'uomo del nuovo mondo, appunto, ovvero colui che si afferma come unione dei contrari, da un lato saggio e dall'altro scellerato (ciò sembra riferirsi all'atteggiamento americano nella Guerra Fredda, contraddistinto da una folle corsa agli armamenti per affermare la propria supremazia e presenza a livello mondiale); ma ci sarebbe anche un'altra chiave di lettura, ovvero dell'uomo del nuovo mondo, incarnato dal cittadino americano/canadese che si presenta alle altre popolazioni del globo, in primis all'Europa, ma anche all'Africa, per apprendere cose per lui nuove da questi Paesi “antichi” e dalla storia millenaria, in modo da poter costituire col tempo una storia anche per il proprio Paese, considerato giovane.
Di fatto il brano più “debole” di Signals, anche se si apprezza la contaminazione tra generi diversi e la voglia di avventurarsi in sonorità nuove per il trio, con una pregevole immediatezza. Voto 7

Ci stiamo avviando verso il finale e i Rush, come da tradizione, vogliono congedare l'ascoltatore lasciando il segno. Possiamo dire che anche in questa occasione ci riescano alla grande, LOSING IT è un piccolo gioiellino dalle sfaccettature futuristiche (protagonista il violino elettrico di Ben Mink) che non può non catturare il cuore di chi sta ascoltando.
L'inizio tenue fa trasparire la voglia del trio di riproporre un lento, dopo l'esperienza di Different Strings in Permanent Waves di due anni prima, ma questa volta con più mordente, e con quell'apprezzabile vena sperimentale.
Balzano subito all'orecchio la struggente voce di Lee che ricama le strofe e il lavoro ineccepibile di Peart alla batteria, macchina da guerra quando è richiesto, ma anche Maestro di groove in occasioni come questa. Già dalle prime strofe riecheggia il violino elettrico come strumento simbolo del brano, e che svolge a tutti gli effetti il ruolo di strumento solista affiancato dalla chitarra, tanto che nella parte centrale è contenuto un vero e proprio assolo dello stesso, che mette in mostra le doti virtuosistiche di Ben Mink, chiamato dalla sua band “FM” per collaborare al brano. Subito dopo entra in gioco Lifeson con un giro accompagnato dalla batteria sincopata di Peart ( da notare che il brano varia su un tempo di 5/8).
Il testo si rifà alla letteratura inglese di E.Hemingway, in particolare nell'inciso:

"for you the blind who once could
see, the bell tolls for thee..."

con un riferimento all'ultimo periodo della carriera dello scrittore, sicuramente tra gli autori preferiti da Peart. Nel complesso un brano molto fine e ben congeniato, da annoverare tra i migliori lenti del trio e che si innesta perfettamente nell'atmosfera di questo disco. Voto 8


Rumori di aerovolanti, di motori “spaziali” aprono il brano conclusivo di Signals, a cui segue l'ingresso di un sintetizzatore, come già sentito in Subdivisions all'inizio del disco: ecco servita COUNTDOWN in tutta la sua spettacolarità. La voce di Lee si insinua tra i vari effetti sonori e lancia la prima strofa:

“Lit up with anticipation
We arrive at the launching site
The sky is still dark, nearing dawn
On the Florida coastline “

Ancora un'altra strofa e poi il pezzo esplode in tutta la sua epicità con la batteria di Peart e le pennate di chitarra di Lifeson, per poi arrivare ad un intermezzo che fa da ponte con una sorta di inciso - seppur questo pezzo presenti una struttura tutta particolare - in cui entra in gioco Lee con le tastiere che rendono il momento topico in attesa della strofa successiva, che rappresenta il punto cruciale della canzone, il cui racconto vedremo a breve. Da qui in poi è un tripudio di synth, con un primo assolo di Lee, particolamente ispirato ma allo stesso tempo essenziale, che ne riproporrà un secondo successivamente, ma questa volta leggermente più articolato, pur costruito sulla stessa melodia del primo.

Floodlit in the hazy distance
The star of this unearthly show
Venting vapours, like the breath
Of a sleeping white dragon

In questo episodio Geddy si concentra molto di più sulle tastiere piuttosto che sul basso, che utilizzerà solo in determinati momenti, ma sempre con il solito “tiro” visto che qui – in particolare - ricorre al suo mitico “Rickenbacker 4001”.
Ma veniamo al tema del brano, nodo centrale per capire l'arrangiamento musicale scelto dai RUSH: dopo essere stati invitati alla cerimonia del lancio dello Shuttle COLUMBIA, il 12 aprile del 1981 – al quale assistettero come ospiti speciali nel settore VIP, denominato RED SECTOR A – Lee, Lifeson e Peart pensarono bene di raccontare questa speciale esperienza vissuta insieme in diretta, attraverso un testo incredibilmente evocativo e che dipinge alla perfezione quei momenti così adrenalinici e ricchi di emozione.
All'interno della canzone sono presenti degli spezzoni di conversazione tra i due astronauti John Young e Robert Crippen in collegamento con il Kennedy Space Center, ovvero la base operativa che coordinava le operazioni di lancio dello Shuttle. Una parte di questi dialoghi è stata inserita nel finale del pezzo, su un ritmo incalzante di batteria e un irresistibile fraseggio chitarristico di Lifeson. Indubbiamente la traccia manifesto, per alcuni versi, di Signals, in quanto il suo contenuto è fortemente a sfondo “tecnologico”, ad esaltazione del progresso e della tecnica, un po' in contrasto con lo spirito generale dell'album, che in alcuni brani contestava l'eccessiva massificazione della società, data da uno sbagliato modo di progredire, nel nome di una crescita dannosa per l'uomo. Ma in questo caso i Rush hanno voluto omaggiare i due astronauti protagonisti del lancio STS1, celebrando, in particolare, il fascinoso mondo dell'esplorazione spaziale.
In conclusione Countdown regala un momento “epico” a livello musicale, seppure sembri un capitolo “a parte” rispetto al resto del disco; ma è proprio questo il bello, soprattutto per come è stata concepita la sua struttura, molto alternativa e con quello spirito “progressive” alla Rush...

Like a pillar of cloud
The smoke lingers high in the air
In fascination
With the eyes of the world
We stare...

Un tripudio di synth, una batteria sempre eccezionale negli accenti e nei vari passaggi del pezzo, una chitarra perfettamente calibrata che dà la giusta carica di energia. Lode ai canadesi per questa ennesima dimostrazione di genialità. VOTO 7,5



LINE UP:
Geddy Lee: basso elettrico, tastiere, pedali moog Taurus, voce.
Alex Lifeson: chitarre, pedali moog Taurus.
Neil Peart: batteria e percussioni, testi.

Musicisti aggiuntivi:
Ben Mink: violino elettrico in “Losing it”.