Recensione a cura di Eli Brant
E’ dura cercare di essere obiettivi quando si è spudoratamente di parte. Allora provo solo a passarvi un concetto. Un’idea che mi è parsa chiara sin dal primo ascolto di “Koi no yokan” e che in fondo è anche il tentativo più sincero di obiettività che posso offrirvi: i Deftones sono diventati leggendari.
Quest’album segna la linea di demarcazione tra una band significativa ed un gruppo immortale.
E non sto esagerando.
Questo era chiaro, ai più, sin dalla strepitosa opera precedente (Diamond eyes) che forse, per molti versi, è anche superiore a quest’ultima fatica. E allora perché arrivare a dire che i Deftones sono tra le migliori formazioni che il panorama rock degli ultimi 20 anni possa offrire? Semplice: solo le grandissime band sono capaci di ripetersi (questo è il loro 7° album!) ad altissimi livelli mantenendo saldo e riconoscibile il proprio sound e contemporaneamente a non scadere nel banale o “già sentito”.
In sostanza, ad evolversi.
E ciò in barba ai boriosi snob per i quali è impossibile eccellere senza “innovare” o creare per forza qualcosa di “rivoluzionario”. Ma anche dritto in faccia ai puristi del genere, pronti a storcere il naso alla prima “variazione sul tema”.
Insomma, Koi no yokan è tutto questo: è un disco chiuso, completo, che acquista carattere ad ogni nuovo ascolto (e scusate se è poco); ha un messaggio a tutto tondo (e proprio per questo non sto lì snocciolarvi come questa canzone sia meglio di quest’altra - benché Tempest e Leathers siano capolavori assoluti!) che in fondo è semplicemente l’amore per la musica. E questo, v’assicuro, traspare in ogni secondo dell’album attraverso un suono (a mio parere) ormai universale, che trascende i limiti di genere. Sicuramente duro (ok sì c’è Nu-metal e allora?), ma con inconfondibili venature melodiche (quelle di Chino) ed una linea ritmica mostruosa (anche se non fresca come in Diamond Eyes). Insomma un prodotto artistico del tutto unico, che risulta godibilissimo anche ai non amanti del genere.
Un disco da sorseggiare a più riprese, per gustarlo dall’inizio (dinamitardo con Swerve city) fino alla fine con i brani più eclettici (What Happened to you?).
Qualche curiosità. E' il secondo album senza Chi Cheng (ancora in riabilitazione dopo il terribile incidente del 2008 che lo tiene legato ad un letto..tieni duro Chi!) sostituito - egregiamente - da Sergio Vega (ex Quicksand). Mentre il titolo richiama un’espressione giapponese che non trova un'esatta traduzione in italiano, ma che dovrebbe avvicinarsi all'idea di “amore a prima vista”.
In breve? E’ il mio album del 2012, sul podio assieme alla struggente bellezza di “Blues funeral” di Mark Lanegan ed alla piena maturità di “Nocturniquet” dei Mars Volta.
VOTO: 85/100
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