A cura di Eli brant.
Ascoltando The devil put dinosaurs here, si
realizza una volta per tutte che l’assenza di Layne Staley ha privato la band della sua anima malata e
straziante.
Quella per cui molti li
avevano ricondotti al grunge, ma
anche quella che ha accompagnato un’intera generazione nei momenti di malessere
che ognuno si trova ad affrontare.
Resta però in piedi e del
tutto integra l’altra identità degli A.I.C..
Quella che gli ha permesso
di distinguersi da tutti gli altri e li ha resi unici.
Quella oscura e possente
che, dopo lo struggimento iniziale, scuote e sconvolge, facendo fuoriuscire ed
urlare la propria condizione.
The devil put dinosaurs here conserva intatto
quest’ultimo aspetto, ma con una formula ridotta e meno convincente del
precedente Black gives a way to blue
rispetto al quale perde in freschezza.
All’epoca in particolare
(siamo nel 2009), le alchimie vocali tra Cantrell
e l’allora semi-sconosciuto Duvall
avevano fatto gridare al (quasi) miracolo. Sostituire Staley era impossibile ed allora i due si concentrarono nella
costruzione di una nuova personalità attraverso l’intreccio perfetto tra le
loro voci. E l’esperimento, specie
dal vivo, era riuscito perfettamente. Questa volta tuttavia,
l’effetto finale è molto meno travolgente e la sensazione è quella di un
coinvolgimento ridotto, sterile e più asciutto.
Resta salvo il sound cupo
e profondo, così come l’andamento Sabbatthiano
lento ed imponente.
Si percepisce inoltre il
recupero di alcune sonorità metal dei primi tempi (il che ad alcuni farà
piacere, ad altri un po’ meno), mentre l’approccio sonoro complessivo sembra
riprendere più che qualcosa dal classic
rock, con riff statuari e molto cadenzati.
Insomma, la firma di Jerry
non viene meno, così come la sezione ritmica solida e mai banale.
In assoluto però, il disco
perde in originalità e resta, a conti fatti, un album difficile: non
necessariamente complesso, ma molto arduo da digerire e comprendere.
Non è una delle migliori
uscite degli A.I.C., anche se il coraggio, quello sì, di certo non manca ai
paladini del grunge: dodici brani per un’ora e 7 minuti.
In un’epoca lobotomizzata
dai frenetici ritmi televisivi e da quelli scostanti ed impazziti del web,
proporre un album simile è un atto quantomeno azzardato se non imprudente.
Il problema vero,
tuttavia, è la mancanza di equilibrio complessivo.
Questo è dovuto non tanto,
o non solo, alla composizione della scaletta (che non aiuta, specie nel mezzo)
ma piuttosto alla ridondanza di alcuni brani che appesantiscono (e di molto)
l’ascolto.
Di attenzione per riuscire
a far scorrere per intero l’album ce ne vuole davvero molta ed a tratti sembra
persino una piccola impresa.
In realtà però, i brani,
presi singolarmente sono ancora notevoli.
Sì è vero, ci sono alcuni
passaggi a vuoto come la title track
oppure “Hang on a Hook” (che si
apprezza solo nella parte finale), ma i singoli (“Stone” e “Hollow”) o la
stupenda ballad “Voices” colgono
davvero nel segno. Altre canzoni si godono
dopo un po’ di ascolti, come il trittico “Low
ceiling”-dal ritornello ammaliante, “Breath
on a window”-energica e coinvolgente e la ballad country “Scalpel” che dal vivo conquisterà i cori
del pubblico. In definitiva, siamo forse
di fronte un piccolo passo falso per una grande band. Ma non è di certo una
bocciatura, perché brani come Voices
e Stone rendono giustizia ad un
gruppo inossidabile entrato ormai nella leggenda.
Inutile nasconderselo: si
sente tremendamente la mancanza ed il bisogno della classe sopraffina di band
come gli Alice in chains. Persino in momenti meno
inspirati come quest’ultimo, in cui, è duro ammetterlo, si soffre per la
mancanza di mordente. Abbiamo però una certezza
assoluta: dal vivo la band riesce sempre a far germogliare ed esplodere anche i
brani meno riusciti, restituendogli verve e grinta sopiti dietro la patina del
disco.
VOTO: 65/100
Tracklist:
1. Hollow
2. Pretty Done
3. Stone
4. Voices
5. The Devil Put Dinosaurs Here
6. Lab Monkey
7. Low Ceiling
8. Breath On a Window
9. Scalpel
10. Phantom Limb
11. Hung On a Hook
12. Choke